mercoledì, 1 Maggio , 24

Cucchi, il papà Giovanni: morto mentre era in mano allo Stato

Non me lo avete fatto vedere da vivo adesso me lo fate vedere da morto. Sembrava un marine ucciso dal napalm, in Vietnam. Lo Stato doveva curarlo, aiutarlo e non farlo morire così”. Ha detto così il signor Giovanni Cucchi, papà di Stefano, nel corso della sua testimonianza al processo bis per la morte del figlio. “Quando mi svegliarono, quella notte, era da poco passata l’una, e mi ritrovai davanti un gruppo di carabinieri, dentro casa che parlavano di droga”.

L’arresto del figlio e l’incubo della droga per Stefano. “Mi resta il rammarico – ha continuato – che se avessi prospettato al difensore la concessione degli arresti domiciliari forse sarebbe andata diversamente. Mentre invece nel giorno della convalida suggerivo la comunità. Stefano da parte sua mi disse ‘Ma non l’hai capito che mi hanno incastrato?’ Ero disperato. La sera prima i carabinieri ci avevano detto che lo avrebbero presto rimandato a casa ed invece tornai da mia moglie e non sapevo che dire”.

Inutili sono poi i giorni del carcere. “Cercammo di portare un cambio, una parola. Ma non riuscimmo mai”. Ad un certo punto arrivò la notizia del trasferimento in ospedale, al Sandro Pertini. “Non appena ci dissero che era ricoverato, noi andavamo tutti i giorni in ospedale, senza riuscire a vedere Stefano né ad avere notizie su di lui, ma il fatto che stesse lì, per noi, era motivo di conforto perché anche se la situazione ci preoccupava era in mano ai medici e questo ci faceva pensare che lo avrebbero aiutato. Quel giovedì in cui ci hanno chiamato per dirci che era morto è stato uno shock”.

“A quel punto ho gridato, ho fatto di tutto. E mi chiedo sempre come è possibile che un ragazzo muoia in quel modo nell`ambito dello Stato? Quando l`ho visto, all`obitorio, non sembrava Stefano… ma un marine morto in Vietnam con il napalm”. Anche il confronto con il medico di turno o gli agenti porta ricordi laceranti: “Mi dissero che si era spento. Gli dissi che non era possibile, stava in salute prima dell’arresto. Loro mi risposero che si tirava su il lenzuolo ed io non ci potetti credere a questa spiegazione. Un medico cura, tira giù il lenzuolo”.

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L’arresto del figlio e l’incubo della droga per Stefano. “Mi resta il rammarico – ha continuato – che se avessi prospettato al difensore la concessione degli arresti domiciliari forse sarebbe andata diversamente. Mentre invece nel giorno della convalida suggerivo la comunità. Stefano da parte sua mi disse ‘Ma non l’hai capito che mi hanno incastrato?’ Ero disperato. La sera prima i carabinieri ci avevano detto che lo avrebbero presto rimandato a casa ed invece tornai da mia moglie e non sapevo che dire”.

Inutili sono poi i giorni del carcere. “Cercammo di portare un cambio, una parola. Ma non riuscimmo mai”. Ad un certo punto arrivò la notizia del trasferimento in ospedale, al Sandro Pertini. “Non appena ci dissero che era ricoverato, noi andavamo tutti i giorni in ospedale, senza riuscire a vedere Stefano né ad avere notizie su di lui, ma il fatto che stesse lì, per noi, era motivo di conforto perché anche se la situazione ci preoccupava era in mano ai medici e questo ci faceva pensare che lo avrebbero aiutato. Quel giovedì in cui ci hanno chiamato per dirci che era morto è stato uno shock”.

“A quel punto ho gridato, ho fatto di tutto. E mi chiedo sempre come è possibile che un ragazzo muoia in quel modo nell`ambito dello Stato? Quando l`ho visto, all`obitorio, non sembrava Stefano… ma un marine morto in Vietnam con il napalm”. Anche il confronto con il medico di turno o gli agenti porta ricordi laceranti: “Mi dissero che si era spento. Gli dissi che non era possibile, stava in salute prima dell’arresto. Loro mi risposero che si tirava su il lenzuolo ed io non ci potetti credere a questa spiegazione. Un medico cura, tira giù il lenzuolo”.

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