mercoledì, 6 Dicembre , 23

Burn out e depressione nelle professioni sanitarie: intervista alla Dott.ssa De Maio

Ben-essere: stare bene. Molto spesso si dimentica di ricondurre la parola benessere alla sua essenza, e benché la si nomini di frequente sono molti i casi in cui la nostra società ,improntata alla velocità e alla produzione, dimentica l’importanza dello star bene a 360 gradi: corpo e mente. E’ di ieri la notizia di un tentato suicidio da parte di un medico, a Napoli. Alla depressione viene riconosciuta una sempre maggiore incidenza e rilevanza, tanto da essere stata recentemente aggiunta tra le patologie per cui la legge 104 prevede sostegno e benefici. Eppure poco si parla di professioni usuranti da un punto di vista psicologico, di lavori che comportano livelli di stress alti ed espongono intere categorie a un rischio elevato di burn out.  Tra queste il primato va alle professioni in ambito sanitario e agli operatori penitenziari. I sintomi: astenia, stanchezza, debolezza, tachicardia, la sensazione di non farcela, di aver esaurito le risorse. A livelli avanzati il burn out può sfociare in depressione, dunque non va sottovalutato. Salute a tutti ne ha parlato con Valentina de Maio, sessuologa e psicoterapeuta.

 

Dott. ssa De Maio, a cosa è dovuta la frequenza di burn out e depressione nelle professioni sanitarie?

Le professioni sanitarie comprendono un’ ampia varietà di ambiti e dunque le problematiche sono tante e varie, ma possiamo dire che in generale l’essere a disposizione della comunità espone al rischio di venire fagocitati dal numero e dalla profondità di richieste di cura, aiuto e sostengo. Si è investiti di responsabilità e aspettative, sono professioni altamente coinvolgenti nelle quali la persona mette in gioco molte parti di sè e assorbe molto “male”. Poi c’è l’aspetto del coinvolgimento emotivo, il dover affrontare con frequenza lutti.

Se è noto che alcune professioni sono più usuranti da un punto di vista psicologico, come mai non è prevista un’assistenza psicologica costante?

Non è obbligatoria, ma la presenza di psicologi presso le strutture ospedaliere (con diffusione ed efficacia maggiore o minore a seconda delle regioni italiane) dedicati al sostegno e alla cura del personale sanitario è già prevista. Solo che spesso interviene lo stigma che ancora aleggia sull’affidarsi alle cure di uno psicoterapeuta. Ancora si guarda allo psicologo e psicoterapeuta come l’ultima spiaggia in caso di disagio, qualcuno a cui fanno ricorso i matti. Inoltre molti medici hanno una ostinata diffidenza nei confronti della psicologia, ritenuta non abbastanza affidabile. C’è anche scarsa informazione, ancora si pensa ai percorsi psicoterapeutici come a qualcosa di lunghissimo, mentre ci sono approcci in grado di risolvere attacchi di panico in dieci sedute.

Quindi si trascurano i segnali di stress?

Si trascurano i segnali di stress ma soprattutto si sottovaluta l’importanza del benessere psicologico, che passa anche attraverso un ambiente lavorativo armonioso. Non soltanto i professionisti in ambito sanitario dovrebbero seguire una formazione che gli fornisca gli strumenti per “svuotarsi” dalle scorie accumulate attraverso il lavoro, ma anche nell’équipe lavorativa  bisognerebbe stringere collaborazioni improntate a una corretta comunicazione, in cui l’empatia sia predominante. Si eviterebbero così dinamiche di mobbing e l’isolamento, che favorisce burn out e depressione.

Andrebbe insomma rivalutato il ruolo della salute psicologica in ambito sanitario?

Assolutamente. Più che altro occorrerebbe smettere di sottovalutarlo.

 

 

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Dott. ssa De Maio, a cosa è dovuta la frequenza di burn out e depressione nelle professioni sanitarie?

Le professioni sanitarie comprendono un’ ampia varietà di ambiti e dunque le problematiche sono tante e varie, ma possiamo dire che in generale l’essere a disposizione della comunità espone al rischio di venire fagocitati dal numero e dalla profondità di richieste di cura, aiuto e sostengo. Si è investiti di responsabilità e aspettative, sono professioni altamente coinvolgenti nelle quali la persona mette in gioco molte parti di sè e assorbe molto “male”. Poi c’è l’aspetto del coinvolgimento emotivo, il dover affrontare con frequenza lutti.

Se è noto che alcune professioni sono più usuranti da un punto di vista psicologico, come mai non è prevista un’assistenza psicologica costante?

Non è obbligatoria, ma la presenza di psicologi presso le strutture ospedaliere (con diffusione ed efficacia maggiore o minore a seconda delle regioni italiane) dedicati al sostegno e alla cura del personale sanitario è già prevista. Solo che spesso interviene lo stigma che ancora aleggia sull’affidarsi alle cure di uno psicoterapeuta. Ancora si guarda allo psicologo e psicoterapeuta come l’ultima spiaggia in caso di disagio, qualcuno a cui fanno ricorso i matti. Inoltre molti medici hanno una ostinata diffidenza nei confronti della psicologia, ritenuta non abbastanza affidabile. C’è anche scarsa informazione, ancora si pensa ai percorsi psicoterapeutici come a qualcosa di lunghissimo, mentre ci sono approcci in grado di risolvere attacchi di panico in dieci sedute.

Quindi si trascurano i segnali di stress?

Si trascurano i segnali di stress ma soprattutto si sottovaluta l’importanza del benessere psicologico, che passa anche attraverso un ambiente lavorativo armonioso. Non soltanto i professionisti in ambito sanitario dovrebbero seguire una formazione che gli fornisca gli strumenti per “svuotarsi” dalle scorie accumulate attraverso il lavoro, ma anche nell’équipe lavorativa  bisognerebbe stringere collaborazioni improntate a una corretta comunicazione, in cui l’empatia sia predominante. Si eviterebbero così dinamiche di mobbing e l’isolamento, che favorisce burn out e depressione.

Andrebbe insomma rivalutato il ruolo della salute psicologica in ambito sanitario?

Assolutamente. Più che altro occorrerebbe smettere di sottovalutarlo.

 

 

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